Incontro con Stefano Laffi

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In  occasione dei 70 anni di scautismo a Santarcangelo (1946 – 2016)

la biblioteca Baldini e il gruppo Scout di Santarcangelo

presentano

Giovedì 13 ottobre 2016, ore 21

il volume

Quello che dovete sapere di me.
La parola ai ragazzi

Feltrinelli editore

sarà presente il curatore del volume Stefano Laffi  (Feltrinelli, 2016)

Il libro curato da Stefano Laffi è nato da una ricerca che ha coinvolto 900 giovani tra 16 e 21 anni che hanno partecipato alla Route nazionale Agesci conclusasi a San Rossore nel 2014.
“I ragazzi si raccontano per gli stati d’animo che attraversano più che per ciò che fanno. La loro è una soggettività molto esposta”

 

 Un libro fatto di lettere che raccontano sogni, paure, convinzioni e dolori dei ragazzi e delle ragazze di oggi. Senza filtri e senza moralismi.

Un messaggio nella bottiglia, un lungo “post” un po’ speciale senza un volto e senza nome, ma che ne racchiude tanti insieme; quasi un manifesto generazionale.

 

Stefano Laffi

Stefano Laffi (Milano, 1965) è ricercatore sociale presso l’agenzia di ricerca sociale Codici (Milano). Ha collaborato con la Rai, Radio Popolare, oggi con le riviste “Lo Straniero” e “Gli asini”. Si occupa di mutamento sociale, culture giovanili, processi di emarginazione, consumi e dipendenze. Ha scritto, fra l’altro, Il furto. Mercificazione dell’età giovanile (2000). Ha curato Le pratiche dell’inchiesta sociale (2009) e con Maurizio Braucci Terre in disordine. Racconti e immagini della Campania di oggi (2009). Con Feltrinelli ha pubblicato La congiura contro i giovani (2014).

 Nell’estate del 2014, trentamila ragazze e ragazzi compresi fra i sedici e i ventun anni hanno partecipato alla Route nazionale, appuntamento storico degli scout Agesci, per conoscersi, confrontarsi, stare insieme. In vista di quell’occasione è stato chiesto a tutti loro – su base volontaria e in forma anonima – di scrivere una lettera con il titolo “Quello che dovete sapere di me”, ovvero di stendere liberamente il proprio autoritratto, intorno a pensieri, questioni, sentimenti avvertiti come urgenti, essenziali per avere una rappresentazione corretta della loro vita, al di là dell’appartenenza allo scoutismo.
Circa novecento fra loro hanno aderito all’invito, e Stefano Laffi, ricercatore sociale, ha guidato la sua équipe in un approfondito lavoro di analisi sul ricchissimo materiale raccolto. Qui, ne restituisce una selezione per costruire un libro composto dalle voci dei ragazzi, dai loro racconti, dalle loro lettere a nessuno e a tutti noi. Dopo tante parole sui ragazzi di oggi, finalmente le loro parole delineano un autoritratto composito e sorprendente, di una generazione che è molto osservata ma, forse, molto poco capita.
“Quell’età, dalla quale tutti passano ed escono per lo più illesi, ci manda in crisi, come se non riuscissimo a riattingere alla memoria di cosa succede per decodificarla, o come se il nostro ricordo fosse inevitabilmente datato o falsato, piegato ad affermare quello che vogliamo dire oggi, nella retorica di frasi che cominciano con ‘Ai miei tempi…’. Facciamo allora un passo indietro, proviamo a sospendere il giudizio, perché il libro nasce con questo intento.”
Nell’estate del 2014 circa 30 mila ragazzi e ragazze hanno partecipato alla Route nazionale, appuntamento storico degli scout. In vista di quell’evento, Agesci si è domandata chi sono questi ragazzi e perché, in un mondo che cambia così rapidamente, c’è ancora tanta richiesta di scoutismo? Per questo ha chiesto loro di raccontarsi in forma anonima partendo dal titolo: “Quello che dovete sapere di me”. Sono state raccolte 900 lettere che sono state analizzate dalla redazione della cooperativa di ricerca Codici che ha estratto circa 300 categorie di analisi (’la paura del futuro’, l’impotenza di fronte alla morte’, ad esempio) e ne ha costruito uno strumento di lavoro per Agesci. Centoventi di quelle lettere – quelle che non contenevano riferimenti personali che rendessero riconoscibile l’autore ed erano rappresentative di molte altre – sono diventate un libro,

“Quello che dovete sapere di me. La parola ai ragazzi” (Feltrinelli) curato da Stefano Laffi, ricercatore sociale tra i fondatori di Codici. “In quelle lettere, i ragazzi si raccontano per come si sentono, per gli stati d’animo che attraversano più che per quello che fanno, la loro è una soggettività molto esposta – racconta Laffi -. I ragazzi di trent’anni fa avrebbero detto ‘io sono di sinistra’ oppure ‘io faccio il classico’, oggi questo discorso vale meno. E in questi stati d’animo si alternano la determinazione e il desiderio di raggiungere degli obiettivi e la fatica di quest’epoca, la difficoltà di trovare il loro posto nel mondo”. I proventi del lavoro di curatore per il libro saranno devoluti a un progetto di accoglienza per migranti a Lampedusa: “Questa operazione di autoracconto di una generazione viene trasformata in una forma di aiuto verso altri ragazzi che fuggono dai loro Paesi e approdano sulle nostre coste”.

 

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Per saperne di più:

Intervista a Stefano Laffi

Il libro nasce da un lavoro di ricerca un po’ anomalo. Come mai avete scelto di utilizzare le lettere, il racconto autobiografico?
Volevamo evitare di andare a scoprire cose che già sappiamo. Esiste già una socio-demografia adolescenziale e ci sono molte interpretazioni allarmate, ‘i ragazzi fanno uso di sostanze’, ‘bevono alcol’, ‘stanno sempre su Internet’, o compassionevoli, ‘non hanno futuro’. In pratica hanno già deciso chi sono i ragazzi. Noi volevamo fare un contro-racconto adolescenziale, scrivere l’autobiografia di una generazione. Abbiamo chiesto loro ‘cosa significa avere 16/18 anni oggi?’. L’invito era scrivere le cose che dobbiamo sapere di loro, le cose urgenti, in un dialogo immaginario con lettori adulti che non conoscono, indicando di sé solo sesso, età e regione di provenienza. Abbiamo fatto un’operazione anomala di ricerca, le lettere erano già state usate ma non così. Noi possiamo costruire il dizionario delle parole dei ragazzi, il flusso narrativo di come si sentono. Certo non è un racconto lineare, ma ricomincia ogni venti righe.

Qual è la parola che ricorre di più in questi racconti?Futuro. Ed è strano a 16 anni, se devi scegliere cosa dire di te, usare la parola ‘futuro’. È vero che ai ragazzi si chiede sempre ‘cosa vuoi fare da grande?’ ma qui è diverso, è la parola a tornare sempre. È il virus di oggi: i ragazzi hanno addosso la necessità di mettere il futuro nei loro pensieri. E il futuro è angosciante, è incerto, instabile, difficile da configurare. È qualcosa che genera paura, anche perché – e questo è un dato generazionale – i ragazzi sono separati da quel futuro da prove, test, selezioni per la scuola, l’università, il lavoro. E racontano di aver paura di non farcela, di aver paura di non essere all’altezza, di dover corrispondere alle aspettative in un mondo che seleziona tantissimo e che non ha posto per tutti. Contemporaneamente, raccontano la condizione attuale in cui navigano tra gioie, passioni sentimenti. La loro è un’adolescenza raccontata per elenchi, di sogni, desideri, azioni, preoccupazioni, pensieri, stati d’animo.

Questo racconto autobiografico cosa ci dice dei giovani di oggi?
Ci dice che non c’è un’unica cosa in cui i ragazzi si riconoscono, che c’è un modo di stare nel presente che passa da tanti stati d’animo, da tante appartenenze. Ci dicono che c’è una ricchezza di sfide e possibilità esistenziali ma anche molte fatiche. In tanti hanno fatto coming out nella loro lettera: per la sessualità, sul non credere in Dio, sul non corrispondere a qualche attesa sociale. E poi hanno una visione interessante del proprio ruolo, in poche lettere si usa la parola ‘noi’, non c’è una coesione generazionale. Quelle in cui c’è la parola ‘noi’ sono quelle di chi prova a sfidare il mondo e sono lettere belle in cui i ragazzi chiedono un mondo nuovo rispetto a quello che hanno, un mondo in cui ci sia rispetto per la natura, in cui amicizia e relazioni prevalgono su produzione e consumo, in cui la competizione lascia il posto alla collaborazione.

E sul fronte del lavoro quali sono quelli che vorrebbero fare?
Indicano quelli in cui possono essere di aiuto agli altri, parlano di fare volontariato, di fare il medico in zona di guerra, di fare l’insegnante o comunque una professione che ha a che fare con la tutela della natura. Ci sono molto meno i mestieri di carriera. I ragazzi hanno interiorizzato il fatto che si chiede a tutti di impegnarsi per un mondo più sostenibile.

Prima hai parlato di soggettività molto esposta, in questo che ruolo hanno i social media?
I ragazzi hanno fatto tanta palestra nel racconto di sé. I social media li hanno sicuramente invitati a raccontarsi giorno dopo giorno e forse hanno anche alimentato l’elemento narcisistico o il misurarsi rispetto al consenso degli altri, a quanto si piace o no. Questa soggettività sembra anche un’altra cosa. È l’inevitabile strategia cognitiva di una generazione che non si può specchiare negli adulti perché ha un’esperienza di vita completamente diversa. Questi ragazzi parlano più lingue, cambiano città, devono inventarsi nuovi lavori, usano strumenti e mezzi che i loro genitori non conoscono. Quindi gli adulti che hanno di fronte non sono il modello a cui guardare. Quando sei chiamato a inventarti un lavoro, sei un pioniere, devi chiederti cosa sarà di te continuamente, è come se scrivessi un diario quotidiano di te, quello che riesci a fare, le cose che non sai fare, i successi. La soggettività è l’inevitabile effetto della condizione sociale di continua autocostruzione. Non puoi che fare così, sei in un flusso di continua verifica.

Ma se gli adulti che hanno di fronte non sono un modello, qual è il ruolo della famiglia?
Nelle lettere la famiglia c’è, è raccontata, evocata. C’è molto meno la scuola, se non come orizzonte incerto. Teniamo conto che questi ragazzi sono a ridosso della maturità. La famiglia c’è ed è un legame tendenzialmente forte, poi c’è la conflittualità con fratelli e sorelle, ma è normale. E c’è chi racconta di genitori separati o di situazioni difficili. Ma la famiglia è il luogo affettivo, rassicurante, non è il luogo del conflitto. E c’è anche la volontà di costruire una famiglia loro. Perché se si rende instabile qualcosa, la famiglia, il lavoro, questa diventa desiderabile.

Hanno voglia di trovare lavoro?
Certo ma hanno anche paura di non farcela. Ricordiamoci che hanno tra i 16 e i 20 anni quindi sono lontani dall’ingresso nel mondo del lavoro. Per loro è più facile proiettare il desiderio che scontrarsi con un mercato del lavoro chiuso. Il lavoro è un orizzonte su cui investire. La rottura verso il lavoro come schiavitù o la famiglia come prevaricazione, come accadeva negli anni Settanta, non c’è.

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